Oltre alle note impronte, sulla superficie lunare numerosi sono i resti lasciati dalle missioni Apollo.
di Marco Milano
Palline usate da Alan Shepard durante l’Apollo 14. APOD. Credit NASA
Il 24 luglio 1969, alle ore 18. 50 ora italiana il modulo di comando su cui viaggiavano Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins concluse il suo rientro a Terra con un tuffo nell’Oceano Pacifico, a 380 km a est dell’atollo di Wake: lo splashdown chiudeva la missione Apollo 11. Il modulo fu subito recuperato e oggi si può ammirare al National Air and Space Museum a Washington DC.
Che fine ha fatto invece l’Eagle, il primo modulo ad effettuare un allunaggio? Come la maggior parte dei moduli lunari usati nelle missioni Apollo, anche Eagle, una volta riportati indietro Armstrong e Aldrin al randezvous con Mike Collins in orbita sul Columbia, ha quindi esaurito il suo compito ed è tornato indietro, schiantandosi sulla superficie lunare.
Degli altri L.E.M. (Lunar Excursion Module) usati fino al 1972, due dei primi voli, Apollo 5 e Apollo 9, sono bruciati in ritorno nell’atmosfera terrestre. Gli altri sette, tra cui l’Intrepid dell’Apollo 12, l’Antares dell’Apollo 14, il Challenger dell’Apollo 17, hanno avuto la stessa sorte dell’Eagle dell’Apollo 11: parcheggiati per sempre sulla Luna. Non conosciamo però il punto preciso dove hanno terminato il loro viaggio, almeno stando ai dati in possesso dello Smithsonian National Air and Space Museum Location of Apollo Lunar Modules
Tra i moduli destinati alla superficie selenica ci sono poi due eccezioni: l’Aquarius dell’Apollo 13 ha interrotto bruscamente la sua avventura, a causa del noto incidente di “Houston abbiamo un problema” “Houston abbiamo un problema”, mentre un modulo di cui forse si hanno notizie più certe è invece quello della missione Apollo 10, ovvero il viaggio che testò il volo ravvicinato in orbita lunare poche settimane prima del 20 luglio ’69, aprendo la strada al trionfo di Apollo 11. Dopo aver sorvolato la Luna a 15 km di distanza e riportato gli astronauti in capsula, fu gettato nello spazio fino a 900 milioni di chilometri di distanza.
“Snoopy” – così fu battezzato il modulo – si riteneva perso per sempre nello spazio profondo, vista la difficoltà di rintracciarne il percorso. Nick Howes, un membro della Royal Astronomical Society, ha però di recente dichiarato in tweet di aver raccolto dati a sufficienza per stabilire con certezza dove si trova adesso Snoopy. Dal 2011, gli astronomi della sua squadra hanno analizzato diversi terabyte di dati radar, con una probabilità di intercettare Snoopy pari a 235 milioni a 1. Ora pare che Snoopy sia stato individuato, ma la certezza non è in realtà proprio totale, del 98% per essere precisi. Fino a quando non ci si avvicinerà abbastanza da dettagliarne con precisione il profilo, non potremo però essere certi che l’oggetto intercettato nel cosmo sia veramente Snoopy.
Perché questo interesse particolare per questo reperto delle missioni Apollo? Il motivo sta, anche, nel fatto che si tratta dell’ultimo pezzo mancante all’appello dei 796 oggetti lasciati sulla Luna. È questo infatti il numero ufficiale dei “resti umani” censiti dalla NASA nel Manmade Material on the Moon , di cui 765 appartenenti alle missioni americane, principalmente Apollo, mentre il resto sono i residui delle esplorazioni senza equipaggio russe, europee, cinesi, indiane. I rottami più recenti comprendono diversi robot, come i Ranger Spacecraft, i Lunar Orbiters , i Lunar Crater Observation and Sensing Satellite (LCROSS) .
La spazzatura lunare più interessante, tuttavia, è indubbiamente quella lasciata dalle missioni Apollo. Dal 1969 al 1972, gli atterraggi furono “solo” sei, ma la quantità di oggetti rimasti è davvero impressionante. Del resto, non c’era molta alternativa, l’obiettivo infatti era quello di allunare, fare esperimenti e ripartire il più leggeri possibile per tornare a casa sani e salvi.
Scorrendo la lista stilata dalla NASA, si scopre che nel Mare della Tranquillità e nelle aree circostanti c’è davvero di tutto. Ovviamente i cinque moduli lunari – “Snoopy” e “Aquarius” sono ormai altrove – o i rottami che ne rimangono, che nascondono inoltre la maggior parte degli equipaggiamenti abbandonati. C’è la quasi totalità della strumentazione elettronica utilizzata, fotocamere e videocamere, batterie, cavi, maniglie, pulsanti e tutto l’occorrente per far funzionare i LEM e le comunicazioni con la Terra, a Houston; il rover lunare delle incredibile passeggiata in auto sulla Luna dell’Apollo 15 e 16.
Ci sono naturalmente le bandiere degli Stati Uniti piantate in prossimità dell’atterraggio, ma quasi sempre ripiegate o cadute in seguito al liftoff, il decollo di ritorno dei LEM. Tanti sono poi i martelli e gli attrezzi usati per raccogliere campioni rocciosi e disseminati a diverse distanze. Rimangono sulla luna anche importanti strumentazioni scientifiche – che sono state in definitiva il cuore delle missioni stesse – contenute nell’ ALSEP (Apollo Lunar Surface Experiments Package) come alcuni magnetometri, sismometri, i collettori per l’analisi del vento solare, il Lunar Dust Detector, i mitici piuma e martello usati per dimostrare la legge di Galileo Galilei sull’accelerazione gravitazionale durante l’Apollo15, nel 1971, e, soprattutto, gli specchi e i catarifrangenti, come il primo retro-riflettore laser installato durante Apollo 11, in funzione ancora oggi, per misurare la distanza Terra-Luna con precisione sub-millimetrica. Grazie al Lunar Laser Ranging, sappiamo anche che il nostro satellite si sta allontanando da noi a una velocità di 3,8 cm all’anno.
Secondo il catalogo stilato dalla NASA c’è inoltre una quantità impressionante di oggetti più piccoli e “vissuti”. Oltre alla targa commemorativa e al ramoscello di ulivo d’oro lasciati da Armstrong e Aldrin, la statuetta in alluminio in ricordo dei colleghi caduti in missione in quegli anni e le bandiere, simboli in un certo senso più solenni, sono rimasti in superficie e nei LEM anche altri oggetti più umani, molto umani… : indumenti, componenti dismessi delle tute, soprascarpe lunari, tappi per le orecchie, i kit per abbeverarsi nelle tute, le amache per dormire, salviettine umidificanti, saponette, tagliaunghie, sacchetti per il vomito e, inevitabilmente… contenitori raccogli escrementi.
Non mancano oggetti anche piuttosto insoliti o improbabili, passati ormai alla storia e che lasciano un segno ancora più forte del passaggio umano: per esempio la mazza da golf e le palline usate da Alan Shepard durante l’Apollo 14, una copia della Bibbia, un ritratto di James Irwin dell’Apollo 15, la foto di famiglia imbustata nella plastica di Charles Duke dell’Apollo 16 e altro.
Foto di Famiglia di Charles Duke (Apollo 16). Credits NASA
Interessarsi ancora di questi resti non rappresenta però solo una mera curiosità. Si tratta di reperti che hanno un vero e proprio valore archeologico: è passato ormai tempo a sufficienza per studiarli e magari conoscere meglio gli effetti del vuoto e l’impatto delle radiazioni sulla materia e sugli oggetti che porteremo in futuro nello spazio. Il loro valore simbolico, dopotutto, è enorme. Grazie al lavoro di ricostruzione dello Smithsonian National Air and Space Museum, o dei tanti centri e planetari sparsi per il mondo, possiamo ancora meravigliarci a 50 anni di distanza.