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L’universo “cosmicomico” di Italo Calvino

Il 15 ottobre prossimo ricorreranno i cento anni dalla nascita di Italo Calvino, uno dei maggiori narratori e intellettuali italiani del Novecento.

di Andrea Castelli

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Italo Calvino. Credits: https://cinquepassi.org/antologia/avventura-due-sposi-italo-calvino/.

Il 15 ottobre prossimo ricorreranno i cento anni dalla nascita di Italo Calvino, uno dei maggiori narratori e intellettuali italiani del Novecento, nonché grande sperimentatore di linguaggi e generi letterari. Oltre alla celebre trilogia fantastico-allegorica composta da “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante” e “Il cavaliere inesistente”, estremamente interessanti sono i dodici racconti de “Le Cosmicomiche”, pubblicati come raccolta nel 1965, che ci danno modo di vedere all’opera un inedito Calvino in veste di “scienziato”. Si tratta di storie umoristiche, paradossali e surreali, create sfruttando come punto di partenza reali teorie scientifiche, che danno vita a un’autentica sfida narrativa che si discosta dalla “science fiction” tipica, per esempio, di J. Verne e H.G. Wells. In questi racconti il lettore s’immerge in mondi e situazioni fantastiche nate dall’originale intreccio di letteratura, filosofia e scienza. Come dichiarò lo stesso Calvino, la scienza moderna perde in “visualizzabilità”, non permette di farsi immagini di ciò che descrive, ed è per questo che apre un mondo che va ben al di là di ogni possibile rappresentazione visiva. Ma la mente del lettore, in particolar modo quello che non mastica il linguaggio astratto della scienza, evoca costantemente un’immagine dietro l’altra; tradotte in parole ed emozioni, queste immagini danno vita a un particolare tipo di racconto: “cosmicomico”, appunto. La letteratura ha qui la funzione di guidare il lettore in modo leggero e divertito alla scoperta di un universo che va oltre l’umano e che, con spirito realista, Calvino considera esistente indipendentemente dall’uomo.
Il protagonista de “Le cosmicomiche” è Qfwfq, un’entità non meglio definita che esiste dall’inizio dell’Universo e che narra le vicende in prima persona. Una volta egli esclamò:

Lo so bene! […] voi non ve ne potete ricordare ma io sì! L’avevamo sempre addosso, la Luna, smisurata: quand’era il plenilunio – notti chiare come di giorno, ma d’una luce color burro – pareva che ci schiacciasse; quand’era luna nuova rotolava per il cielo come un nero ombrello portato dal vento; e a luna crescente veniva avanti a corna così basse che pareva lì lì per infilzare la cresta d’un promontorio e restarci ancorata.

Qfwfq aveva ragione: queste parole aprono la prima cosmicomica, “La distanza della Luna”, e ci danno un’idea molto colorita di come dovesse apparire il cielo all’epoca della formazione del nostro satellite naturale, circa 4 miliardi e mezzo di anni fa. Era molto più vicino di com’è ora, forse solo 20-25.000 Km dalla Terra contro gli attuali 384.400 Km. Oggi sappiamo che la Luna si allontana progressivamente dalla Terra al ritmo di circa 3,8 cm all’anno a causa degli effetti prodotti dalle forze di marea. Quando però nel passato era molto vicina, Qfwfq racconta che lui e la sua combriccola ci salivano addirittura sopra, grazie a una scaletta posizionata su una barca e andavano a raccogliere una sorta di latte molto nutriente, forse un po’ acido, formatosi dalla fermentazione di erbe, radici e piccoli animali che la Luna attira sulla sua superficie quando passa vicina alla Terra. Gli astronauti delle missioni Apollo preferirono invece portarsi a casa delle rocce lunari, piuttosto che il latte. Così facendo, però, Qfwfq e amici correvano il rischio di non riuscire più a tornare sulla Terra e restare isolati su un mondo destinato ad allontanarsi sempre più con il passare del tempo.
D’altronde il protagonista, avendo l’età dell’Universo, sa tutto sul suo funzionamento, sulla sua nascita ed evoluzione. Lo dice chiaro e tondo in un’altra cosmicomica, “Tutti in un punto”:

Si capisce che si stava tutti lì – fece il vecchio Qfwfq – e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe? Ho detto «pigiati come acciughe» tanto per usare una immagine letteraria: in realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti.

Già, lui lo sapeva perché c’era anche quando si pensa sia avvenuto il Big Bang. Grazie a Edwin Hubble, abbiamo una legge precisa che ci dice che l’universo si espande e che ogni galassia si allontana da ogni altra con velocità che crescono al crescere della loro distanza; ciò significa però che, riavvolgendo il nastro, la distanza tra ogni punto dell’Universo doveva essere nulla andando a ritroso di circa 13,8 miliardi di anni, al momento del Big Bang, appunto. L’universo primordiale era quindi incredibilmente denso e caldo, completamente diverso da ciò che è adesso. Quello che osserviamo oggi non è stato però il frutto di un’esplosione, come spesso si sente dire, ma di un’espansione iniziale molto rapida dello spazio stesso. Ora noi ci ritroviamo immersi in un Universo molto più vasto, meno denso e più freddo di com’era all’inizio, e queste caratteristiche hanno fatto sì che potesse originarsi la materia così come la conosciamo. Guardando il cielo, ora possiamo osservare oggetti che si trovano a distanze sterminate da noi, il che significa che li vediamo com’erano nel passato, dal momento che la luce che ci proviene da loro ha dovuto viaggiare molto a lungo prima di raggiungerci. Più si guarda lontano e più si guarda indietro nel tempo. Addirittura, alcuni degli oggetti che vediamo ora potrebbero non esserci nemmeno più. Qfwfq naturalmente lo sapeva e ci racconta con queste parole tratte da “Gli anni-luce” un aspetto sorprendente e sconcertante dell’Universo:

Una notte osservavo come al solito il cielo col mio telescopio. Notai che da una galassia lontana cento milioni d’anni-luce sporgeva un cartello. C’era scritto: ti ho visto. Feci rapidamente il calcolo: la luce della galassia aveva impiegato cento milioni d’anni a raggiungermi e siccome di lassù vedevano quello che succedeva qui con cento milioni d’anni di ritardo, il momento in cui mi avevano visto doveva risalire a duecento milioni d’anni fa. […] prima di lasciarmi andare a una qualsiasi dichiarazione, avrei dovuto sapere esattamente cosa dalla galassia avevano visto e cosa no: e per questo non c’era che domandarlo con un cartello del tipo: ma hai visto proprio tutto o appena un po’? Oppure vediamo se dici la verità: cosa facevo? Poi aspettare il tempo che ci voleva perché di là vedessero la mia scritta e il tempo altrettanto lungo perché io vedessi la loro risposta e potessi provvedere alle necessarie rettifiche.

Ma questo immenso spazio, che forma ha? È piatto o non proprio? Il nostro Qfwfq sapeva che a dare la risposta sarebbe stato un giorno un certo Albert Einstein con la sua teoria della relatività generale. Questo capolavoro del pensiero umano ci dice che la gravità, in fin dei conti, non è una forza e si manifesta sotto forma di curvatura dello spazio-tempo. Corpi molto massicci deformano lo spazio (e anche il tempo) e, curvandolo, costringono altri corpi a percorrere traiettorie non più rettilinee, ma curve. Ecco perché un corpo ne attrae un altro, proprio come Qfwfq sperava accadesse tra lui e la signora Ursula H’x in “La forma dello spazio”:

[…] Ammesso dunque che si cadesse, si cadeva tutti con la stessa velocità e accelerazione; infatti eravamo sempre pressappoco alla stessa altezza, io, Ursula H’x, il Tenente Fenimore. […] naturalmente, non sognavo altro che d’incontrare Ursula H’x, ma dato che nella mia caduta seguivo una retta assolutamente parallela a quella che seguiva lei, mi pareva fuori luogo manifestare un desiderio irrealizzabile. Certo, a voler essere ottimista, restava sempre la possibilità che, continuando le nostre due parallele all’infinito, venisse il momento in cui si sarebbero toccate. […] – Là! Guarda! Là c’è un universo! Guarda là! Là c’è roba! – gridavo a Ursula H’x facendo segno in quella direzione […] se era vero che lo spazio con qualcosa dentro è diverso dallo spazio vuoto perché la materia vi provoca una curvatura o tensione che obbliga tutte le linee in esso contenute a tendersi o curvarsi, allora la linea che ognuno di noi seguiva era una retta nel solo modo in cui una retta può essere retta, cioè deformandosi di quanto la limpida armonia del vuoto generale è deformata dall’ingombro della materia.

Per poter creare queste sorprendenti possibilità narrative, Calvino è ben consapevole di quanto le teorie della fisica moderna siano parte integrante delle nostre vite e del nostro modo di pensare e, quindi, di scrivere. È solo attraverso l’ironia e l’estremizzazione delle regole e dei concetti scientifici che è possibile apprezzare scenari lontanissimi dal senso comune, ma al contempo radicati ormai nell’immaginario collettivo.
Se anche voi non resistete al fascino di questo modo di raccontare la scienza, vi aspettiamo in Planetario nei prossimi mesi perché potrebbero esserci in programma talk di approfondimento dedicati proprio all’opera di Calvino. Continuate a seguirci!

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