Questa frase è molto probabilmente una delle più famose della storia dell’esplorazione spaziale e fu pronunciata da Jack Swigert, pilota del modulo di comando delle celebre ma sfortunatissima missione lunare Apollo 13.
L’equipaggio effettivo di Apollo 13. Da sinistra: Jim Lovell, Jack Swigert e Fred Haise. Image credit: https://images.nasa.gov
“Okay Houston, we’ve had a problem here” (“Okay Houston, abbiamo avuto un problema qui”). Così parlò John Leonard “Jack” Swigert Jr., pilota del modulo di comando di Apollo 13, il giorno 13 Aprile 1970. Una frase destinata a diventare molto celebre, forse tanto quanto quella pronunciata da Neil Armstrong neanche un anno prima in occasione dello storico primo allunaggio. L’utilizzo del tempo verbale al passato prossimo e non all’indicativo presente non sta a significare che sono trascorsi 50 anni da quel giorno, ma che quelle furono le testuali parole che Swigert pronunciò per informare il Controllo Missione a Houston di un incidente avvenuto poco prima. Infatti, la frase di Swigert è tutt’oggi ricordata con “Houston, abbiamo un problema”, sebbene non sia stata quella effettivamente pronunciata. Ma quale fu il fatidico “problema”? E cosa accadde all’equipaggio? Per scoprirlo, partiamo dall’inizio di questa incredibile storia, definita “il maggior fallimento di successo” dell’astronautica e la missione lunare più famosa dopo Apollo 11, al punto tale da guadagnarsi l’attenzione del regista Ron Howard che, nel 1995, realizzò il film “Apollo 13” con Tom Hanks e Kevin Bacon come attori protagonisti.
Apollo 13, quinta missione umana del gigantesco programma Apollo, partì dal Kennedy Space Center presso Cape Canaveral l’11 Aprile 1970 ed era diretta all’altopiano di Fra Mauro. Un terzo allunaggio, dopo i successi di Apollo 11 e 12, appariva ormai agli occhi di tutto il mondo una sorta di routine, senza nulla di interessante da raccontare. Tant’è vero che stampa e TV si opposero fermamente alla richiesta della NASA di dare adeguato spazio a questa vicenda sui propri canali di comunicazione, snobbando di fatto la missione. Ma Apollo 13 è lì a ricordare a chiunque che non esiste routine nell’esplorazione spaziale e che quella che all’inizio sembrava una normale missione, nel giro di un paio di giorni si sarebbe trasformata nella più drammatica delle avventure, capace di lasciare con il fiato sospeso il mondo intero.
Se si escludono “segnali” in perfetto stile scaramantico – la missione era identificata con il numero 13 e rientrò il giorno 17 – c’è comunque da dire che questa avventura non iniziò di certo sotto i migliori auspici. Due giorni prima del lancio, infatti, la NASA comunicò ufficialmente la necessità di modificare la composizione dell’equipaggio. Charles Duke, pilota di riserva del modulo lunare e futuro pilota del LEM di Apollo 16, era stato esposto ad un caso di rosolia. Scattati gli accertamenti medici su tutti gli astronauti coinvolti nella missione, si scoprì che l’unica persona dell’equipaggio ufficiale non immune a tale malattia era Ken Mattingly, pilota del modulo di comando; fu così che Mattingly dovette cedere il posto a John “Jack” Swigert. Qualche giorno dopo, nel bel mezzo della tragedia, Mattingly si sarebbe rivelato una persona chiave in questa triste vicenda, lavorando a terra nel simulatore di volo per mettere a punto una procedura di rientro efficace per Apollo 13. Questo cambio di equipaggio in extremis non era certo una buona notizia, ma gli intoppi non erano ancora finiti: subito dopo la partenza, si verificò un malfunzionamento a uno dei cinque motori del secondo stadio del razzo Saturno V, risolto decidendo di prolungare l’accensione degli altri quattro e del terzo stadio. Ma il peggio arrivò dopo quasi 56 ore dal lancio, quando il Controllo Missione ordinò all’equipaggio di procedere al rimescolamento dell’ossigeno dei quattro serbatoi, operazione necessaria per prevenire la stratificazione dell’ossigeno liquido a causa dell’assenza di peso. Questo segnò l’inizio del dramma: azionato il comando per la miscelazione, i cavi di alimentazione del motore del miscelatore crearono un corto circuito, innescando così l’esplosione del serbatoio 2 e il grave danneggiamento del vicino serbatoio 1. In seguito si scoprì che, in fase di costruzione, il serbatoio 2 aveva subito un urto che andò a danneggiare il rivestimento dei cavi di alimentazione del motore del miscelatore. Dopo l’esplosione, fu relativamente semplice constatare che, a quel punto, l’ossigeno disponibile nei due serbatoi rimasti integri non era più sufficiente ad alimentare il modulo di comando Odyssey per tutta la durata della missione, che venne immediatamente annullata. Poiché, senza ossigeno, le celle a combustibile del modulo di comando non erano più in grado di produrre energia elettrica e acqua potabile, si decise di confinare l’equipaggio nel modulo lunare Aquarius, che funse quindi da scialuppa di salvataggio, non dovendo più essere utilizzato per l’allunaggio. Il modulo lunare aveva energia e ossigeno a sufficienza, ma era dimensionato per ospitare due persone per due giorni, non tre per tre giorni. I filtri del LEM per l’eliminazione dell’anidride carbonica all’interno del veicolo spaziale non erano infatti stati concepiti per tre astronauti e quelli di riserva del modulo di comando non erano compatibili con gli attacchi del sistema di aerazione del LEM. I tecnici del Controllo Missione si dovettero allora ingegnare notevolmente al fine di trovare una soluzione, chiedendo agli astronauti di fabbricare una sorta di adattatore posticcio con i materiali che avevano a disposizione a bordo. Ci riuscirono, ma non era ancora finita: altri ostacoli quasi insormontabili misero a durissima prova la straordinaria abilità di problem solving e di gestione dell’emergenza del direttore di volo Gene Kranz e dei suoi uomini, nonché la resistenza fisica e la tenacia degli astronauti. Tra le tante spaventose incognite, la più angosciante era come tornare a casa. Non avendo certezze in merito all’integrità dell’unico propulsore che equipaggiava il modulo di comando e servizio, fu scelto di eseguire un passaggio attorno alla Luna e di riprendere la rotta verso la Terra sfruttando una traiettoria di ritorno libero, che consentiva di non usare propulsione. Qualche correzione di rotta fu comunque necessaria per un sicuro rientro in atmosfera e venne eseguita utilizzando il motore del modulo lunare, progettato però per doversi accendere una sola volta. E poi c’erano ancora grossi dubbi sulla capacità di tenuta dello scudo termico, compromessa forse dall’esplosione, e sulla corretta apertura dei tre paracadute. Insomma, era necessario un mezzo miracolo per riportare a casa Lovell e compagni. Un pizzico di fortuna fu finalmente dalla parte di Apollo 13 e tutto funzionò correttamente fino a quel fatidico 17 Aprile 1970, quando – dopo un interminabile blackout radio di oltre sei minuti, doppio rispetto al solito – il modulo di comando contenente i tre eroi ammarò sano e salvo nelle acque dell’Oceano Pacifico, consegnando alla storia una missione a suo modo esemplare, emozionante e affascinante.