Un piccolo frammento di roccia ritrovato nel deserto libico nel 1996 potrebbe essere la prima prova tangibile giunta sulla Terra di un’esplosione di supernova.
Frammenti di Hypatia. Image credit: Mario di Martino, Inaf – Osservatorio astrofisico di Torino.
Nel lontano 1996 fu rinvenuto dal geologo Aby Barakat nel deserto libico, nel sudovest dell’Egitto, un piccolo e strano frammento di roccia di pochi grammi di peso. La pietra venne chiamata Ipazia – in onore di Ipazia d’Alessandria, famosa astronoma e matematica vissuta nel IV secolo d.C. – e i sospetti che si trattasse di qualcosa di decisamente insolito si fecero subito strada.
La conferma che si trattava di un oggetto extra-terrestre arrivò nel 2013, quando David Block della Wits University pubblicò su “Earth and Planetary Science Letters” uno studio che identificava Ipazia con un nucleo cometario caduto sulla Terra circa 28 milioni di anni fa. Soltanto due anni dopo, grazie a un’analisi geochimica, non solo si comprese che Ipazia non era un frammento di nucleo cometario, ma anche che non corrispondeva ad alcun tipo di meteorite noto. Le sue origini restarono quindi totalmente sconosciute e varie ipotesi al riguardo furono avanzate.
Nel febbraio 2018 nuove analisi condotte su un campione di Ipazia e pubblicate sulla rivista “Geochimica et Cosmochimica Acta” portarono alla luce alcune sconvolgenti evidenze. Che quella pietra fosse un oggetto insolito ormai era chiaro, ma che si trattasse addirittura di qualcosa di mai visto nessuno poteva aspettarselo. Si scoprì che Ipazia era una sorta di “impasto” mal amalgamato composto da due matrici miste, una costituita da materia carbonacea quasi pura e l’altra ricca di inclusioni di solfuro di ferro e nickel, moissanite (carburo di silicio) e rari granuli di alluminio metallico e grafite. Dalle analisi emersero essenzialmente tre incredibili sorprese: la prima fu che nella matrice principale di Ipazia c’era una quantità elevata di carbonio e una insolitamente ridotta di silicio, al contrario di ciò che si riscontra invece nelle condriti, le meteoriti rocciose indifferenziate dotate della stessa composizione chimica dei planetesimi; la seconda fu l’aver trovato un’alta quantità di idrocarburi poliaromatici, ovvero composti molto specifici del carbonio che costituiscono una componente importante della polvere interstellare che esisteva prima della formazione del Sistema solare; la terza, diretta conseguenza delle altre due, fu che la mancanza di silicati permetteva di differenziare Ipazia dalle particelle di polvere interstellare e da ogni altro materiale cometario conosciuto e questo aspetto, insieme alla doppia matrice della pietra, poteva essere la testimonianza di una grande eterogeneità nella composizione della nebulosa solare primordiale. Lo studio terminava avanzando l’ipotesi che Ipazia si fosse formata in una regione di spazio fredda che avrebbe dovuto trovarsi molto più distante della fascia principale degli asteroidi, da dove proviene la maggior parte dei meteoriti: probabilmente la nube di Oort, ai confini del Sistema solare.
Nonostante i notevoli progressi compiuti fino a quel momento nella comprensione delle straordinarie peculiarità chimiche di Ipazia, non si arrivò ancora a una vera e propria identificazione dell’origine del suo corpo progenitore.
Ma nell’aprile 2022, dopo più di venticinque anni dal suo ritrovamento, la vicenda sembra essere arrivata a un epocale punto di svolta. I ricercatori Jan Kramers, Georgy Belyanin e Hartmut Winkler dell’Università di Johannesburg hanno pubblicato sulla rivista “Icarus” uno studio rivoluzionario che sostiene che Ipazia sia la prima prova tangibile giunta sulla Terra di un’esplosione di supernova di tipo Ia. Per mezzo di tecniche innovative, gli scienziati del team di ricerca hanno potuto constatare, con loro grande sorpresa, che Ipazia non si è formata sulla Terra, non fa parte di nessun tipo noto di cometa o meteorite, non si è formata dalla polvere del sistema solare interno e nemmeno da quella interstellare. Inizialmente avanzarono l’ipotesi che Ipazia, alla luce della sua particolare composizione, avesse avuto origine dal gas di una stella gigante rossa, ma i conti non tornavano, dal momento che la roccia conteneva troppo ferro, troppo poco silicio e presentava concentrazioni troppo basse di elementi più pesanti del ferro. Esclusa anche la possibilità di un’origine da una supernova di tipo II per via dell’elevato contenuto di ferro rispetto al silicio e al calcio e della presenza di strani elementi come il solfuro di nickel, non restava che l’ipotesi della supernova di tipo Ia. Questi rari fenomeni, tra i più energetici del cosmo, si verificano in seguito all’esplosione di una nana bianca, ovvero ciò che resta al termine del ciclo vitale di una stella medio-piccola, come ad esempio il Sole. Per far sì che una nana bianca al carbonio-ossigeno esploda, è necessario che essa formi un sistema binario con un’altra stella. A causa del suo enorme campo gravitazionale, la nana bianca inizia a “rubare” materia alla stella compagna, accrescendo la sua massa oltre una soglia limite – non superando la quale la nana bianca era stabile – e iniziando quindi a collassare. Questo processo di contrazione fa aumentare vertiginosamente le temperature così che il carbonio e l’ossigeno possano fondere generando nickel. L’energia liberata è in grado di far esplodere la stella, disintegrandola completamente e scaraventando nello spazio gas e polveri. Nel caso di Ipazia, il collasso della nana bianca sarebbe avvenuto all’interno di una vastissima nube di polveri. Con il trascorrere del tempo, gli atomi di gas della supernova, raffreddandosi, avrebbero iniziato ad aggregarsi alle particelle della nube, formando il corpo progenitore di Ipazia.
Gli scienziati ritengono che questo mix di atomi di gas e polveri non abbia mai interagito con altre nebulose e che questa sorta di “bolla” sia diventata solida grosso modo durante le prime fasi di formazione del Sistema solare. Infine, come può accadere alle comete, la “roccia madre” di Ipazia avrebbe iniziato a dirigersi verso la Terra e, entrando in contatto con la nostra atmosfera milioni di anni dopo, potrebbe essersi frantumata generando innumerevoli frammenti, alcuni dei quali sono stati ritrovati nel deserto libico in quel lontano 1996.
Ormai vi sarà chiaro: qui in Planetario si inizia a respirare aria di “pietre cadute dal cielo”. Per restare aggiornati, continuate a seguirci!