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Un’insegna al neon attira l’attenzione del James Webb

Il James Webb Space Telescope si è recentemente reso protagonista di una scoperta che potrebbe portarci a rivedere i processi di formazione planetaria.

di Andrea Castelli

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Rappresentazione artistica del disco protoplanetario della stella SZ Cha. Credit: https://webbtelescope.org

Il telescopio spaziale James Webb ci ha ormai abituati a scoperte e osservazioni straordinarie che ci mostrano l’Universo come non l’avevamo mai visto prima. Giusto per ricordarne alcune tra le più recenti: ha rilevato la presenza di carbonio in galassie databili appena 800 milioni di anni dopo il Big Bang, epoca finora ritenuta decisamente prematura per consentire a questo elemento di formarsi; ha individuato JD1, la galassia più debole mai osservata, esempio tipico di quelle prime galassie che hanno maggiormente contribuito alla fase di reionizzazione dell’Universo; è riuscito a scovare dell’acqua sotto forma di vapore all’interno del disco protoplanetario di PDS 70, una giovane stella a circa 370 anni luce da noi.
E proprio osservando un altro disco protoplanetario, il JWST si è reso protagonista di un’altra recentissima e fondamentale rilevazione: un’”insegna al neon” ha attirato la sua l’attenzione, così come era capitato quindici anni fa a un altro potente occhio a infrarossi, l’ormai pensionato telescopio spaziale Spitzer. Era il 2008 quando le osservazioni di Spitzer rilevarono la presenza di gas neon all’interno del disco protoplanetario della stella SZ Chamaeleontis (SZ Cha) – un astro del tipo T-Tauri, ovvero pre-sequenza principale, vale a dire nei primi stadi della propria evoluzione – molto simile a com’era il nostro Sole circa 4,5 miliardi di anni fa. L’analisi dei dati raccolti mostrò qualcosa di inaspettato e anomalo: tracce di neon III (neon due volte ionizzato), tipicamente scarso nei dischi protoplanetari investiti da raggi X ad alta energia prodotti dall’irruenza della stella nascente. La presenza di neon III può essere spiegata attribuendo la produzione di radiazione ad alta energia all’ultravioletto lontano (EUV, extreme ultraviolet) piuttosto che a radiazione X. L’anomalia risiede invece nel fatto che si è trattato dell’unico rilevamento di neon III in un campione di 50-60 dischi protoplanetari stellari osservati. Il neon viene utilizzato come indicatore della quantità e tipologia di radiazione che colpisce ed erode un disco protoplanetario, provocandone la fotoevaporazione. Si tratta di una questione molto delicata, poiché la velocità con la quale si dissolve il disco ad opera della radiazione stellare determina la quantità di tempo che gli eventuali futuri pianeti di quella stella hanno a disposizione per potersi formare. Naturalmente, sapendo che SZ Cha assomiglia parecchio al Sole com’era all’alba del Sistema solare, studiare il suo disco ci permette di fare un salto indietro nel tempo di circa 4,5 miliardi di anni e comprendere più in dettaglio com’è iniziata la nostra storia.
La sorpresa arrivò però quando anche il James Webb decise di osservare SZ Cha, poiché lo scenario che si trovò di fronte risultò decisamente diverso da quello di Spitzer: quasi nessuna traccia di neon III. La sua scomparsa dal disco è stata probabilmente dovuta alla predominanza della radiazione a raggi X, evento tipico in dischi protoplanetari di quella tipologia. Il gruppo di ricerca che ha utilizzato i dati raccolti da Webb ha recentemente pubblicato un paper nel quale si avanza l’ipotesi che le differenze riscontrate dai due telescopi nel sistema SZ Cha siano il risultato di un vento variabile che, quando presente, assorbe la luce UV e lascia che i raggi X colpiscano il disco. I venti sono un fenomeno comune in un sistema con una stella energetica in formazione ed è proprio per via della loro variabilità che è possibile anche osservare il sistema durante un periodo tranquillo e senza vento, che è proprio quello che ha fatto Spitzer. Queste differenze sono significative, perché i pianeti – nel caso in cui il disco sia dominato da EUV – avrebbero circa un milione di anni in più per potersi formare rispetto al tempo che avrebbero a disposizione se la fotoevaporazione del disco fosse causata prevalentemente da raggi X.
Il team che ha condotto lo studio sta già pianificando ulteriori osservazioni di SZ Cha con Webb, così come con altri telescopi, per arrivare a svelare fino in fondo la reale natura di questa variabilità del vento. Potrebbe essere plausibile che periodi brevi e tranquilli dominati da radiazioni EUV siano situazioni comuni in molti sistemi planetari giovani, ma la questione, per ora, è ancora aperta. “Ancora una volta, l’universo ci mostra che nessuno dei suoi metodi è così semplice come vorremmo renderlo noi. Dobbiamo ripensare, riosservare e raccogliere più informazioni. Seguiremo le insegne al neon.”, ha dichiarato Catherine Espaillat, prima autrice dello studio pubblicato il 15 novembre scorso sulla rivista “The Astrophysical Journal Letters”.

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